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Il ‘68 si è suicidato

Presentiamo l’intervista di Chiara Sirianni a Marco Invernizzi (pubblicata sul settimanale TEMPI del 19 maggio 2008 - www.tempi.it)

Marco Invernizzi“Gli anni del desiderio e del piombo. ‘68, terrorismo e Rivoluzione”. Questo il titolo del volume di Enzo Peserico, scomparso il 1° gennaio 2008, la cui presentazione è stata occasione di una conferenza sul ‘68 organizzata da Alleanza Cattolica presso il Teatro Ares: i relatori Marco Invernizzi, presidente dell’Istituto storico dell’Insorgenza e per l’identità nazionale, Pierluigi Zoccatelli, vice direttore del Cesnur, e Giovanni Cantoni, Reggente nazionale di Alleanza Cattolica, hanno affrontato il ‘68 come “categoria culturale permanente”, che ha cambiato gli ambienti – la famiglia, la scuola, l’università e i rapporti sociali in generale – nei quali sarebbero cresciute le generazioni successive. Hanno partecipato alla tavola rotonda anche Alfredo Mantovano, sottosegretario agli Interni, e Mauro Ronco, professore ordinario di Diritto penale all’Università di Padova. Il volume di Enzo Peserico (1959-2008) descrive le due strade percorse dal ‘68, quella politico-militare che sfocia nel terrorismo e quella che mira alla costruzione di un “uomo nuovo”, frutto di una critica militante contro le radici cristiane della storia italiana: se la prima fallisce, la seconda cambia i connotati culturali di una generazione, preparando l’Italia all’epoca odierna, post-ideologica, dominata dal relativismo e dalla disperazione esistenziale.

Invernizzi, mi rivolgo a lei che in qualità di Presidente Dell’Isiin (Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale) ha aiutato a completare l’opera prima della pubblicazione.
Enzo Peserico è stato chiamato in cielo il 1° gennaio 2008, a Re, il Val Vigezzo, al termine di un incontro di formazione e di convivenza per famiglie che lui stesso aveva organizzato. Due ore prima di morire, salutandomi, mi aveva dato il manoscritto, chiedendomi di aiutarlo a completarlo per poterlo avere stampato in primavera in vista di un convegno sul ‘68 che avevamo in programma di organizzare. Il libro era pronto, ed era stato pensato per tanti anni, nel corso dei quali l’autore aveva rielaborato la sua tesi di laurea, poi pubblicato un saggio nei Quaderni di Cristianità, infine prodotto questo lavoro, al quale mancava solo un po’ di editing. Così è stato fatto, grazie a un certo numero di amici che Enzo ringrazierà dal cielo con l’affetto di sempre.

Il ‘68 come fenomeno sociale vanta le analisi più disparate. Nell’accezione comune, si tende a porre l’accento sui suoi caratteri di spontaneità, idealismo, rottura rispetto agli autoritarismi sociali. Nell’introduzione del suo libro Enzo Peserico cita una dichiarazione di Massimo D’Alema, che nell’agosto 2007 rievocava il carattere curativo di quegli anni: «Il ‘68 fu un movimento salutare che cambiò la cultura e le professioni, che influì profondamente sulla vita pubblica del Paese e anche dell’esperienza umana». Qual è il suo personale giudizio sul ‘68 italiano e sui cambiamenti che ha comportato?
Premetto che non esistono delle situazioni sociali perfette, e di qualsiasi epoca si può dire che avuto delle luci e delle ombre, così com’è stato sicuramente per l’epoca precedente il ‘68 e per quella successiva; quando vogliamo giudicare un evento come il ‘68 e le sue conseguenze a livello culturale, politico e sociale, credo che si debba andare a cercare la predominante. Sicuramente la predominante del ‘68 è il suo aspetto di rivoluzione culturale, che ha cambiato i connotati di una generazione: ha cambiato il modo di ragionare e soprattutto di rapportarsi con la realtà, portandola sostanzialmente a rifiutare un approccio rispettoso del reale, che sapesse cogliere nella storia il progetto di Dio sull’uomo, per assecondarlo e non per ostacolarlo. Pensiamo alla droga e al suicidio, due realtà che in seguito a quegli anni sono diventate dei fenomeni collettivi, ed hanno trovato delle giustificazioni ideologiche: sono diventate non più un dramma ma un esito, quasi la cifra di un’epoca, soprattutto in alcune parti del mondo. Tutto questo ci consente di dire che la dominante di questa rivoluzione è stata l’introduzione di ferite e di drammi che prima certamente esistevano, ma in maniera molto più contenuta. In sintesi possiamo dire che il ‘68, soprattutto dal punto di vista di una società religiosa com’è la società occidentale, è stato l’esplosione pubblica della dimensione del peccato.

Non è un’espressione un po’ forte?
La parola “peccato” è diventata ormai un’espressione politicamente scorretta: già Pio XII, ben prima del ‘68, diceva che il peccato dell’epoca moderna non è tanto un peccato particolare, quanto l’assenza stessa dell’idea di peccato. Io credo che il ‘68 abbia contribuito a banalizzare e a far diventare normali cose che prima del ‘68 certamente c’erano e ci saranno sempre, ma erano ritenute negative. Per esempio, quest’anno celebriamo il trentesimo anniversario dell’introduzione della legge sull’aborto, e il trentottesimo anniversario dell’introduzione della legge sul divorzio: quello che prima era un’eccezione, o comunque era considerato in termini negativi, come un fallimento, oggi è considerato normale, oltre che addirittura un diritto.

Questo libro rientra in un’operazione culturale anti-sessantottina, che si rivolge in senso apostolico ai giovani e alle famiglie, in quanto bersagli maggiormente colpiti da questa rivoluzione. In che modo?
L’unica cosa “positiva” che ha in sé ogni processo negativo che avviene nella storia, è che costringe le persone a riflettere maggiormente sulle ferite che vengono introdotte. Da questo punto di vista, solo Dio può dire l’ultima parola, solo Dio può trarre il bene dal male; ma posto che neppure Dio cancella il male che è avvenuto, e quindi il peccato sociale che si è determinato in una determinata situazione storica, allora noi possiamo chiederci quantomeno cosa essa abbia portato di “buono”. In questo senso le ferite inferte dal ‘68 nel campo culturale, all’interno del costume e in particolare nel campo della rivoluzione sessuale, hanno portato molti – in particolare i cattolici – a riflettere in maniera più approfondita sul mistero dell’amore umano, su quello che Giovanni Paolo II ha chiamato «la teologia del corpo». Indubbiamente il magistero di Giovanni Paolo II è stato un modo attraverso il quale la Chiesa ha risposto al ‘68, sia a livello di magistero pontificio, contenuto in una serie di udienze precedenti il sinodo sulla famiglia del 1980, sia quando era arcivescovo di Cracovia, e accompagnava i fidanzati, con le sue riflessioni condensate nel libro “Amore e Responsabilità”, che ha avuto all’epoca un’enorme diffusione. È andato alla radice del problema sollevato anche dalla rivoluzione sociale sessantottina, cioè: che cos’è l’amore fra un uomo e una donna? È semplicemente un modo attraverso il quale si riproduce la vita dell’umanità, è semplicemente un’istituzione quella che viene costituta dal matrimonio, oppure c’è molto di più, una partecipazione all’amore di Dio, un momento unitivo ed esemplare di tutta l’umanità? Ecco, tutte queste considerazioni e riflessioni di Giovanni Paolo II sono una bomba a orologeria: quando i teologi le studieranno veramente, e cominceranno e divulgarle e a porle come base dell’insegnamento pastorale, quotidiano, nell’educazione all’amore e al matrimonio, sicuramente questo avrà un effetto benefico straordinario.

Nel 1968 viene pubblicata anche l’enciclica Humanae Vitae, dell’allora Pontefice Paolo VI.
Si, certamente il testo di questa enciclica è la risposta cattolica alla rivoluzione sessuale. La Chiesa dice: non possiamo accettare la separazione del momento unitivo del matrimonio a quello procreativo, non possiamo accettare questa separazione – avvenuta con l’introduzione dei contraccettivi – fra i due momenti che sono costitutivi del matrimonio. Si parla del matrimonio come comunione, ma di cui non bisogna valorizzare soltanto il momento di trasmissione della vita, ma anche di amore di donazione totale, fisica e spirituale fra il marito e la moglie. È un’enciclica molto contestata, dalla quale gli storici sono soliti far partire l’opposizione al magistero, che è caratterizzerà i 40 anni successivi da parte di molti teologi. Con questa enciclica la Chiesa afferma che non si può accettare l’impostazione del problema così come il movimento femminista e la nascita della rivoluzione sessuale, che è la quint’essenza del sessantottismo, l’avevano posto e lo avrebbero posto negli anni successivi. È sicuramente un testo frutto di una scelta controcorrente, non soltanto contro l’opinione esterna alla Chiesa, ma anche contro un’opinione molto diffusa all’interno del mondo cattolico, che costerà al Papa una grande contestazione.

Nel libro si parla di “occasione perduta”, sul piano storico, da parte dei cattolici. A che livello?
Peserico ritiene che se c’era qualcuno che avrebbe avuto tutti gli elementi per contestare la società pre-’68 –che è sostanzialmente la società borghese nata dall’Illuminismo, dalla rivoluzione francese e quindi dall’abbattimento della società cristiana – questi erano proprio i cattolici, perché avevano gli strumenti culturali per giudicare e rifiutare un certo tipo di società. Invece, come ha affermato Samek Ludovici in una sua opera sullo gnosticismo moderno, i cattolici «si inventano una crisi»: si lasciano entusiasmare da quel progetto rivoluzionario che nasce nel ‘68, e come dirà don Luigi Giussani, preferendo l’utopia alla presenza. Il progetto utopistico del futuro prevale sulla vita quotidiana, dove effettivamente noi ci santifichiamo, ci salviamo. E, dominati da questo utopismo, molti cattolici andranno a ingrossare le fila dei movimenti extraparlamentari di sinistra, anche di quelli che poi sfoceranno nel terrorismo.

Che legame si crea fra ‘68 e terrorismo?
È un legame che c’è e che non si può nascondere, innanzitutto da un punto di vista ideologico e culturale. Il ‘68, come tutte le rivoluzioni, è animato da un odio contro la realtà, e l’odio contro la realtà non può fare a meno dell’uso della violenza. Non esiste movimento rivoluzionario che non sia violento: non necessariamente sfocia nel terrorismo, nel despotismo, nell’imposizione, può essere una violenza su se stessi, come la droga, il suicidio, ma anche quel disprezzo di sé che porta al fallimento di molte relazioni sociali, dal matrimonio all’amicizia, alle varie forme di collaborazione. È una conseguenza dell’odio, che ha bisogno della violenza per alimentare il proprio progetto, non di costruzione di qualcosa nel presente, ma di distruzione di quello che c’è nel presente per un ipotetico futuro, che secondo l’utopia progressista sarà necessariamente migliore. Questa violenza da un certo punto in Italia si sposa con la presenza del partito comunista più forte e numeroso del mondo occidentale. Il Pci ha avuto nella resistenza antifascista e antinazista del ‘43-’45 un proprio momento esemplare, direi magico, e una resistenza armata che finisce con l’arrivo delle truppe angloamericane, con la sconfitta elettorale del fronte popolare nelle elezioni del 18 aprile 1948, ma che molti comunisti avrebbero voluto che sfociasse in una vera e autentica rivoluzione che instaurasse la dittatura del proletariato. Come sappiamo Togliatti si oppone a questa linea, crea il partito nuovo, e segue l’insegnamento di Gramsci che prevede che il comunismo vada al potere non con un colpo di Stato come in Russia, ma attraverso la conquista della cultura e della società. Ciononostante, c’è sempre stata all’interno del partito una componente – che aveva come riferimento un suo dirigente, Pietro Secchia – che ha sempre mantenuto vivo l’ideale spento dal fallimento della Resistenza, cioè l’ideale della conquista del potere attraverso la rivoluzione. E se è vero che molti partigiani seppellirono le armi, è anche vero – com’è accertato da diversi studi pubblicati recentemente – che gli stessi dirigenti erano perfettamente al corrente dell’esistenza di una struttura clandestina, pronta a intervenire nel caso in cui il Partito comunista fosse stato messo fuori legge. Possiamo dire che questa struttura discreta ha trovato negli anni 70, sulla scia dei movimenti rivoluzionari prodotti dal ‘68, un’ipotesi organizzativa concreta attraverso le Brigate Rosse, ma anche attraverso tanti altri movimenti terroristici che si formarono in quel tempo. In sintesi, il ‘68 mette in moto un movimento rivoluzionario che ha due alternative: una è culturale, l’altra è quella politico-militare. Quest’ultima fallisce col rapimento e l’assassinio del Presidente della Dc Aldo Moro, perché in seguito a questo lo Stato si rifiuta di accettare le Br come interlocutore e decide di intervenire duramente per reprimere questo movimento, forte anche dell’appoggio incondizionato del Pci di Berlinguer, che sapeva perfettamente che le Brigate Rosse erano nate da frange dei propri militanti. Nel giro di anni vengono colpite e smantellate, anche se come sappiamo dagli ultimi omicidi D’Antona e Biagi sono rimasti dei piccoli gruppi, peraltro insignificanti.

Nel libro si parla di homo ideologicus e di homo religiosus. In che senso i due termini si contrappongono?
L’homo religiosus è quello che rispetta la realtà, nel senso che trova nella realtà il progetto di amore di Dio per l’uomo. Viceversa, l’homo ideologicus è quello che mira a sostituire il progetto di Dio creando una realtà diversa, fondata su un’ideologia inventata dall’uomo. La storia dei duecento anni che vanno dal 1789 alla caduta del muro di Berlino è caratterizzata da ideologie diverse che si sono combattute, ponendo un aspetto specifico al centro del proprio pensiero: il liberalismo la libertà dell’individuo, il socialismo-comunismo la lotta dl classe, il nazionalismo l’idea di nazione, il nazismo la razza. Tutto questo provoca uno scontro con la realtà, perchè l’uomo è stato creato per un altro progetto, che ha diverse caratteristiche: e per questo tutte le ideologie sono costrette a dover creare l’uomo nuovo, cioè diverso da quello che c’è nella realtà. E siccome la natura dell’uomo si ribella a un progetto che è diverso dalla sua natura, per far questo esercitano la violenza. Inizialmente si assecondano degli istinti o degli interessi reali, perché le ideologie nascono sempre da un problema vero: però lo esasperano e costruiscono attorno a questo problema una falsa scala di valori, per cui gli operai che soffrono nell’Ottocento diventano lo strumento per la lotta di classe che produce un mondo molto peggiore di quello che si voleva creare; oppure la nazione tedesca, letteralmente ferita e umiliata dopo la prima guerra mondiale, viene entusiasmata dal progetto di Hitler. Così agiscono le ideologie. Il progetto di Dio è un progetto realista, cioè un progetto che vuole portare l’uomo alla felicità eterna, non alla felicità che non c’è su questa terra. È un progetto che tiene conto che l’uomo è ferito dal peccato originale, e lo aiuta a superare queste difficoltà creando un mondo migliore possibile.

Nell’ultimo capitolo l’autore fa un’analisi del post-’68 utilizzando due espressioni, «disincanto» e «reincanto». Ci vuole spiegare in che termini?
Pesarico dice che il ‘68, sostanzialmente, si è suicidato. La grande maggioranza di quella generazione ha subito la ferita culturale inferta dal ‘68, che sfocia nel suicidio – fisico e morale –, nell’infelicità, nella droga, nel fallimento rivoluzionario. Negli anni Ottanta si inizia a parlare di “riflusso nel privato”: molti sessantottini, in particolare la classe dirigente di Lotta continua, si riciclano nel potere, facendo del “disincanto” il proprio programma politico. Così dallo slogan del Maggio francese, l’«immaginazione al potere», i sessantottini si sono impadroniti di un potere senza immaginazione, funzionale all’appiattimento tecnocratico: li si ritrova in Parlamento, nelle riviste dei giornali, nelle case editrici, a fare i progressisti, magari più moderati di quando erano stati in gioventù, con lauti stipendi. Questo è il suicidio del ‘68: è il suicidio del desiderio che il ‘68 aveva messo nel cuore e nella testa di milioni di persone, le quali si rendono conto che la realtà è diversa, e la loro utopia è naufragata. Avviene allora che nella Chiesa e nel mondo cattolico, passata l’ubriacatura ideologica che aveva accompagnato gli anni successivi al Concilio Vaticano II, cominciano a vedersi i primi timidi ma reali effetti di quella “nuova evangelizzazione” che secondo Giovanni Paolo II è iniziata col discorso inaugurale del Concilio del beato Giovanni Paolo XXIII, in cui si diceva nel 1962, forse anticipando fin troppo i tempi, che non si tratta di cambiare posizioni, ma di dire la verità del Vangelo a un uomo diverso, e quindi di utilizzare un linguaggio e una modalità adatti alla cultura e al modo di ragionare dell’uomo contemporaneo. La generazione post-sessantottina è una generazione, come ha detto il cardinal Giacomo Biffi di Bologna, «sazia è disperata»: ha vissuto in un benessere crescente dopo gli anni della prima guerra mondiale, ma nella disperazione per l’assenza d’ideali, perché gli ideali sbagliati che le sono stati forniti nel ‘68 sono falliti, e non le è rimasto nulla in cui credere. Il cristianesimo che si riorganizza attraverso i movimenti, principalmente dopo il Concilio, offre a quegli uomini che non hanno più una famiglia, una parrocchia, un tessuto sociale che li teneva assieme, un’alternativa esistenziale vivibile. Offre dell’amicizia, e la possibilità di capire cos’è successo e anche cosa potrebbe succedere. Costituiscono quindi quello che Peserico chiama il «reincanto»: cioè il ritorno al reale, alla realtà di una generazione ferita che riscopre il gusto della ricerca della verità, dell’amore umano, della bellezza della vita.

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