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Enciclica “Fides et Ratio” di Giovanni Paolo II

Pubblichiamo un commento di Massimo Introvigne; il testo integrale dell’enciclica può essere letto sul sito del Vaticano.

Papa Giovanni Paolo IIL’enciclica Fides et ratio, pure a lungo attesa, ha attirato l’attenzione dei media per un tempo straordinariamente breve. I giornalisti hanno smesso rapidamente di interessarsene, dopo averla dichiarata “troppo difficile”. E’ vero che le difficoltà di lettura non mancano: per esempio, l’enciclica torna ripetutamente sugli stessi temi, affrontandoli da punti di vista diversi. Tuttavia - per poco che ci si impegni in una lettura attenta - lo schema fondamentale non è difficile da cogliere e ripete, del resto, lo schema consueto di molti interventi di Giovanni Paolo II. Il Pontefice - a proposito delle più diverse realtà (dal lavoro al ruolo della donna) - prospetta anzitutto un dover essere, una situazione conforme al piano di Dio; mostra quindi l’allontanamento degli uomini da questa situazione ideale attraverso un processo di decadenza; esplora infine - in terzo luogo - le possibilità di restaurare una situazione più conforme al piano originario di Dio. Giovanni Paolo II è stato forse il primo Pontefice dopo Leone XIII a offrirci un corpus di insegnamenti esteso a quasi tutti i problemi dell’uomo e della società. Quando questo corpus sarà messo in ordine, ci si renderà conto dell’importanza tutta particolare di questa enciclica, che non affronta un problema in particolare ma il problema dei problemi. Si tratta qui, infatti, del senso stesso dell’esistenza umana, della “domanda seria” (33) - l’espressione è di Hans Urs von Balthasar, che pure non viene citato nel testo - sul significato e sul senso. E’ la domanda che fa l’uomo uomo: l’animale vive, ma non si chiede perché vive. Questa domanda seria si esprime in tre domande tipicamente umane: da dove vengo? dove vado (cioè, che cosa c’è dopo la morte)? perché la morte e il male? (1). Sono domande che si ritrovano in tutte le società. Quando si cessa di porsele, c’è veramente qualcosa che non va, e si deve ritenere che qualche cosa - o qualcuno - le soffochi artificialmente. 

1. Anzitutto, dunque, si trova nell’enciclica una descrizione di come idealmente l’uomo dovrebbe atteggiarsi per rispondere alla domanda seria. L’enciclica si apre con un riferimento a “due ali” (Introduzione) con cui possiamo spiccare il volo verso la risposta: la ragione e la fede. La ragione non è identica alla filosofia, come la fede non è identica alla teologia. La filosofia e la teologia costituiscono modi consapevoli di utilizzare determinati strumenti per pervenire al risultato. Tuttavia, in un senso fondamentale, ogni persona che riflette fa della filosofia, e ogni persona che crede fa della teologia (così come il borghese di Molière, tutto contento - il riferimento non è nell’enciclica -, scopriva di fare continuamente della prosa senza saperlo). 

La ragione - se non è turbata da interferenze esterne, ed è quindi retta ragione - si accosta alla domanda seria (e diventa filosofia) attraverso tre passaggi. Il primo è la meraviglia, la capacità di stupirsi di fronte all’essere, alle cose, alla vita. Troviamo qui, di nuovo, un elemento che distingue l’uomo dagli animali: “senza la meraviglia l’uomo cadrebbe nella ripetitività e poco alla volta diventerebbe incapace di un’esistenza veramente personale” (4). Riflettendo sulla meraviglia, la ragione si mette in moto e conquista una serie di principi di carattere generalissimo, che costituiscono il patrimonio del “pensare filosofico” comune all’umanità il quale precede ogni determinazione o organizzazione particolare del pensiero. Così - diversamente formulato - il principio di verità e di non contraddizione (secondo cui due tesi contraddittorie non possono essere contemporaneamente vere), o l’idea del primato del bene sul male non sono concetti “greci” piuttosto che “indiani”, “antichi” piuttosto che “moderni”, ma sono elementi che possono essere percepiti e affermati sotto ogni cielo. La terza tappa - i “sistemi filosofici”, in concorrenza fra loro - è costituita da tentativi, più o meno felici, di organizzare il “pensare filosofico”. In questo senso i sistemi devono rimanere subordinati al “pensare filosofico”, che è loro prioritario (4).

La fede è diversa dalla ragione non solo per il suo oggetto (che comprende realtà cui la ragione da sola non può arrivare: per esempio la Trinità di Dio) ma anche per il suo principio. E’ obbedienza a Dio che si rivela, in cui l’uomo si mette in gioco con tutta la sua libertà; e da questo punto di vista costituisce “l’atto più significativo della propria esistenza” (13). La Rivelazione di Dio deve però essere letta e compresa in modo sistematico (auditus fidei), nonché approfondita e organizzata secondo le categorie proprie del pensare umano (intellectus fidei): in queste due attività consiste propriamente la teologia. 

Il rapporto fra fede e ragione - e così fra filosofia e teologia - deve essere di distinzione, ma non di separazione. Del resto, fra i due ordini di verità non ci può essere contraddizione perché è lo stesso Dio a rivelarsi nell’ordine naturale, letto dalla ragione, e nella Rivelazione. La verità è quindi una, ma le verità sono di diverso tipo: alcune - razionali - partono da evidenze empiricamente verificabili, altre sono propriamente religiose e quindi - per quanto oggetto di una ulteriore riflessione - all’inizio “semplicemente credute”. Ma in realtà “nella vita di un uomo le verità semplicemente credute rimangono molto più numerose di quelle che egli acquisisce mediante la personale verifica” (91). Questa conoscenza per credenza da una parte può apparire “imperfetta”, ma dall’altra è “umanamente più ricca” in quanto “include un rapporto interpersonale”: si crede in una comunità, e chi crede “sia affida alla verità che l’altro gli manifesta” (32). Il rapporto fra fede e ragione dovrebbe essere dunque normalmente “all’insegna della circolarità” (73). Da una parte la fede stimola la ragione: la Rivelazione “produce pensiero” (15), offre conoscenze ulteriori, cui la ragione da sola, come si è visto, non potrebbe arrivare. Inoltre libera la ragione dalla presunzione attirando la sua attenzione sui limiti, e nello stesso tempo svela l’origine di questi limiti attraverso la rivelazione del peccato originale, che ha una notevole portata filosofica e che risolve in modo radicale il problema del perché la ragione non riesca a “oltrepassare agevolmente il dato sensibile” (22). Da questo punto di vista, contemplare il dramma del peccato - e della redenzione - ponendosi di fronte alla croce di Gesù Cristo significa anche offrire “alla ragione la risposta ultima che essa cerca. Non la sapienza delle parole, ma la Parola della Sapienza” (23). Dall’altra parte, la fede ha bisogno della ragione, e la teologia ha bisogno della filosofia (in questo senso si parlava un tempo della filosofia come ancilla theologiae, espressione “oggi difficilmente utilizzabile” in un contesto in cui si tende a sottolineare l’autonomia delle diverse scienze: 77). Già l’auditus fidei ha bisogno della riflessione razionale soprattutto per affrontare un problema fondamentale: il rapporto fra significato e verità, o “come si possa conciliare l’assolutezza e l’universalità della verità con l’inevitabile condizionamento storico e culturale delle formule che la esprimono” (95). E l’intellectus fidei ha - ancora più evidentemente - bisogno di strutture e di impalcature che sono offerte dalla riflessione razionale e dalla filosofia per approfondire e organizzare le verità offerte dalla Rivelazione (che non si è manifestata in forma di manuale sistematico). Fede e ragione hanno dunque bisogno l’una dell’altra; devono essere prudentemente distinte ma non separate. Con un’ala sola l’uomo non può volare verso la risposta alla domanda seria. 

Nell’enciclica si trovano - in secondo luogo - tutti gli elementi di un grande affresco storico, che si riferisce alla cultura dell’umanità occidentale, e anche di una rapida storia della filosofia che prevede, sostanzialmente, quattro tappe o quadri.

Nel primo quadro osserviamo gli sforzi dell’umanità per pervenire, faticosamente, a un equilibrio fra le due ali, ragione e fede, in cui entrambe siano correttamente utilizzate. Il popolo ebraico aveva una forte percezione dell’unità tra fede e ragione, anche se la sua esperienza non lo portava sempre a sviluppare la relativa distinzione. I greci, al contrario, anche attraverso lo sforzo di superare iniziali “forme mitologiche” (36) - da cui nasce la filosofia in senso stretto - , sottolineavano l’autonomia della ragione, e in una prima primavera del pensiero umano erano pervenuti a molte importanti verità. Il pensiero greco aveva tuttavia anche limiti, e - all’epoca in cui il cristianesimo stava facendo irruzione nella storia - rischiava anche di isterilirsi in un atteggiamento di tipo elitario, caratteristico di “forme di esoterismo” di tipo gnostico (37), in cui si negava che una conoscenza razionale compiuta fosse accessibile a tutti e la si riteneva “riservata a pochi perfetti” (37). Non è questa l’ultima ragione per cui i Padri della Chiesa si accostarono alla filosofia greca insieme con interesse e con diffidenza: l’incontro non fu “ingenuo” ma “critico” (41). Il cammino - che inizia con san Giustino - attraverso il quale il cristianesimo si appropria dei frutti migliori del pensiero greco è lungo. Passa per san Clemente Alessandrino, Dionigi detto l’Areopagita, sant’Agostino e il suo incontro con il pensiero platonico, sant’Anselmo, e finalmente san Tommaso. A proposito di quest’ultimo viene richiamato il suo “posto tutto particolare” (43): secondo l’espressione di Leone XIII nell’enciclica Aeterni Patris del 1879, che Giovanni Paolo II fa sua, il pensiero di Tommaso raggiunse “vette che l’intelligenza umana non avrebbe mai potuto pensare” (44). Il raggiungimento di queste “vette” non derivava però soltanto, per così dire, dallo straordinario quoziente d’intelligenza di san Tommaso (pure certamente presente). La fioritura del pensiero di san Tommaso è un fatto storico in cui entrano anche santità di vita e una speciale assistenza dello Spirito Santo - di tipo carismatico, dal momento che san Tommaso non era né Papa né vescovo. Ispirato dallo Spirito Santo, san Tommaso poteva muoversi con sicurezza su un terreno obiettivamente difficile, e riconoscere le verità ovunque si trovassero secondo il principio omne verum a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est (44). 

Se con san Tommaso si raggiunge il massimo e migliore equilibrio nei rapporti fra fede e ragione, immediatamente dopo comincia il declino del Medio Evo. “A partire dal tardo Medio Evo, (…) la legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressivamente in una nefasta separazione” (45). La ragione prima si separa dalla fede, poi cerca di inglobarla all’interno di “strutture dialettiche razionalmente concepibili” con l’idealismo (45), infine si organizza contro la fede e cerca di espellerla dall’orizzonte dell’uomo con le sedicenti “nuove religioni” dell’umanesimo ateo e con il positivismo laicista e scientista (45). A stretto rigore, afferma l’enciclica, questa ipertrofica concentrazione della ragione su se stessa e dell’uomo su se stesso (dopo avere rifiutato di volgere lo sguardo verso Dio) ha prodotto anche alcuni risultati positivi, con l’approfondimento di temi relativi per esempio al linguaggio, alle strutture della società, alla psicologia profonda della persona. Ma questi risultati positivi settoriali sono stati pagati a carissimo prezzo. Gli stessi cattolici, e la stessa teologia, non sono sempre stati capaci di opporsi al processo di separazione tra fede e ragione, anzi talora se ne sono fatti influenzare nelle varie forme di progressismo, dal modernismo condannato da san Pio X all’assunzione del marxismo in una forma di teologia della liberazione condannata in particolare dall’istruzione Libertatis nuntius del 1984. 

I danni rovinosi prodotti dalla separazione fra fede e ragione si sono manifestati particolarmente nel nostro secolo, e sono stati di due ordini. Anzitutto, si è affermato il “fenomeno della frammentarietà del sapere” (81). Le singole scienze umane (psicologia, sociologia, economia, antropologia) - per non parlare delle scienze naturali - sono coltivate ciascuna per se stessa, non riescono a parlarsi fra loro, mancano di un principio unificante. Questo principio doveva essere la filosofia, che è invece ridotta a una disciplina fra le tante, e neppure la più importante (anzi si dubita della sua utilità). Non si tratta soltanto di un problema per i professori di filosofia: senza un principio unificatore del sapere, l’uomo non riesce a dare significato alla propria vita, anzi vive una “frammentazione del senso [che] impedisce l’unità interiore dell’uomo contemporaneo” (85). In secondo luogo la ragione - dopo avere dubitato di tutto, dopo avere esercitato la sua critica su tutto, fede compresa - comincia a dubitare anche di se stessa. E’ il “dubbio radicale” (81) per cui la ragione rivolge la sua critica corrosiva su se stessa e non è più sicura di sé. Di questa crisi è testimone la filosofia, che si riduce a compiti sempre più modesti e settoriali. L’enciclica fa cenno a quattro fasi di questo processo di riduzione: l’eclettismo, “errore di metodo” (87), che mette insieme per fini contingenti idee pescate qua e là da diverse filosofie “senza badare (…) alla loro coerenza e connessione sistematiche” (86); lo storicismo, che dubita della possibilità di pervenire a verità assolute sostenendo che “ciò che era vero in un’epoca (…) può non esserlo più in un’altra” (87); lo scientismo, complesso di inferiorità della filosofia rispetto alle scienze, che continua in una forma popolare anche dopo che la “critica epistemologica” ha screditato il positivismo e il neo-positivismo (88); il pragmatismo, che si limita a proporre piccole scelte concrete per problemi concreti, che per giunta prescindono da “valutazioni fondate su principi etici” (89) (e che si esprime, tra l’altro, nel democratismo, “una concezione della democrazia” senza principi per cui “l’ammissibilità o meno di un determinato comportamento si decide sulla base del voto”: 89). Questo processo di riduzione degli orizzonti della filosofia culmina nel nichilismo (90), dove la ragione non è più sicura di nulla, non cerca nulla, non spera in nulla. 

Con la quarta tappa dell’itinerario siamo ai giorni nostri: l’epoca “qualificata da certi pensatori come l’epoca della ‘post-modernità’” (91). Al numero 91 dell’enciclica, il Papa affronta il problema della postmodernità, osservando che questa svolta epocale viene definita in modo diverso, e anche sulla sua data di inizio non vi è accordo (un’allusione al fatto che l’epoca postmoderna è di solito fatta iniziare nel 1968 negli Stati Uniti e nel 1989 in Europa). E’ tuttavia “fuori dubbio” che qualche cosa stia succedendo e meriti “un’adeguata attenzione” (91). Come reazione al razionalismo - l’ipertrofia di una delle ali, la ragione, a danno dell’altra - ritorna non la fede, ma una fede, peraltro in modo estremamente confuso. Al razionalismo (la ragione senza la fede o contro la fede) rischia di sostituirsi il fideismo (la fede senza la ragione o contro la ragione). Questi “pericolosi ripiegamenti sul fideismo” (55) si esprimono nel mondo cristiano (protestante, ma occasionalmente anche cattolico) nel “biblicismo” (55) che vuole dedurre ogni sapere direttamente dalla Sacra Scrittura senza mediazioni interpretative o razionali. La Chiesa non versa lacrime sulla crisi postmoderna del razionalismo - che aveva cercato di espellere la fede - ma diffida anche dell’irrazionalismo, il quale è soltanto un errore di segno contrario (non il contrario dell’errore). Una fede priva di mediazioni razionali non diventa cultura e non incide sulla vita morale e sociale. Il tentativo di volare con la sola ala rappresentata da una fede produce, nel migliore dei casi, soltanto “sentimento” e “esperienza”, nel peggiore dei casi “mito o superstizione” (48). 

Che fare, dunque? Si è visto come il quadro ideale di un equilibrato rapporto fra fede e ragione sia stato deformato prima da un secolare processo in cui la ragione ha cercato di emarginare la fede, quindi dalla reazione postmoderna dove una fede cerca di volare senza la ragione. Il ritorno all’equilibrio presuppone, oggi, una battaglia a favore del pensare filosofico e della filosofia. Questa battaglia - nota l’enciclica - incontra oggi tre generi di ostacoli. Il primo è costituito dall’importanza attribuita alle altre scienze umane (psicologia, sociologia, economia, antropologia), considerate tutte più utili o pratiche della filosofia. Queste scienze sono preziose, ma - come si è visto - senza la filosofia rischiano di morire nella loro specializzazione, perché mancano di un principio unificante. In secondo luogo, molti - anche fra i teologi - invitano a partire “dal basso”, per esempio dai problemi concreti o dalla religiosità popolare. Anche in questo caso c’è del vero, ma i problemi devono essere affrontati, e la religiosità popolare deve essere interpretata (non soltanto inseguita), con strumenti che presuppongono una riflessione razionale. In terzo luogo, non manca chi sostiene che l’attenzione alla filosofia è frutto di un etnocentrismo occidentale. La filosofia, si dice, è un fenomeno di matrice tipicamente occidentale e greca, mentre oggi la società è - anche in Occidente - multiculturale e multietnica. Questa obiezione viene affrontata in modo articolato a partire dall’esempio dell’India, a cui è dedicato il numero 72 dell’enciclica. E’ certamente possibile - anzi auspicabile - che anche i cristiani tentino una riflessione sulla loro fede e sul senso della vita a partire dalle categorie del pensiero indiano. Vi sono, tuttavia, tre condizioni. La prima, che si ricordi “l’universalità dello spirito umano, le cui esigenze fondamentali si ritrovano identiche nelle culture più diverse”. La seconda - che suonerà ostica a qualche teorico della multiculturalità –, che si deve credere al carattere provvidenziale dell’incontro fra il cristianesimo e la cultura greco-latina. “Quando la Chiesa entra in contatto con grandi culture precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle spalle ciò che ha acquisito dall’inculturazione nel pensiero greco-latino. Rifiutare una simile eredità sarebbe andare contro il disegno provvidenziale di Dio, che conduce la sua Chiesa lungo le strade del tempo e della storia”. Se una voce ha ingiunto a san Paolo di “passare in Europa” - nulla vietava che prendesse la direzione opposta - si deve credere che questo non sia avvenuto per caso. In terzo luogo è necessario accostarsi all’India non con spirito romantico, andando alla ricerca di quanto è esotico e diverso, ma cercando al contrario nel particolare l’universale: “ci si guarderà dal confondere la legittima rivendicazione della specificità e dell’originalità del pensiero indiano con l’idea che una tradizione culturale debba rinchiudersi nella sua differenza e affermarsi nella sua opposizione alle altre tradizioni, ciò che sarebbe contrario alla natura stessa dello spirito umano”. Quanto si afferma per l’India vale anche - nota l’enciclica - per la Cina, per il Giappone, perfino per l’Africa (dove peraltro le culture locali sono “trasmesse soprattutto per via orale”, il che pone problemi di altro genere).

Si deve, dunque, tornare alla filosofia - superando le obiezioni -: ma quale filosofia? Sono sottolineate, soprattutto, tre esigenze. La prima è la necessità che la filosofia sia ambiziosa, non si riduca a piccoli problemi settoriali - per quanto importante - ma manifesti nuovamente appieno l’ambizione di essere principio unificante del sapere. La seconda, che affermi risolutamente - contro ogni forma di relativismo e di storicismo - la possibilità di conoscere verità assolute. Si trova qui uno dei brani più citati (o meglio, uno dei pochi brani citati) dell’enciclica, in cui anche la stampa quotidiana ha visto una condanna del “pensiero debole”, pure non citato con questo nome: “Credere nella possibilità di conoscere una verità universalmente valida non è minimamente fonte di intolleranza; al contrario, è condizione necessaria per un sincero e autentico dialogo fra le persone” (92). Il nostro secolo dimostra la falsità della tesi fondamentale del “pensiero debole”, secondo cui credere in una verità assoluta produce intolleranza e conflitti. Al contrario, proprio ideologie di impronta relativistica hanno seminato il ventesimo secolo di lutti e rovine. In terzo luogo, una filosofia ambiziosa e sicura di sé dovrà avere anche “portata autenticamente metafisica” (83), tendere “a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante” (ibid.), non rinchiudersi nella gabbia dei fenomeni ma proporre “il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento” (ibid.).

L’uso retto della ragione e la filosofia avrebbero dovuto essere il piedistallo da cui spiccare il volo verso la conoscenza di Dio, e delle cose di Dio. Dopo aver rifiutato il suo ruolo per occupare orgogliosamente da solo il proscenio, il piedistallo è andato in pezzi. La Chiesa, ferma nella condanna del razionalismo, non esulta per le sciagure della ragione, anzi si china pietosamente a raccoglierne i frantumi. E’ capitato lo stesso - per citare un’osservazione, sul punto felice, di monsignor Sandro Maggiolini, vescovo di Como - per altri fra quelli che un tempo erano chiamati “gli ismi contemporanei”. L’insistenza ipertrofica su un elemento lo ha mandato in frantumi, e ora tocca alla Chiesa chinarsi a raccogliere i frantumi. Dopo la crisi del socialismo, è toccato alla Chiesa ricordare che la giustizia sociale è comunque un valore. Dopo la crisi del femminismo, si è levata la Chiesa a difendere la dignità della donna. Ora, con la crisi del razionalismo, in un’epoca postmoderna che tende al fideismo ed è piuttosto avida di meraviglioso, la Chiesa - in controtendenza - leva la sua voce per difendere i diritti della ragione. E’ forse - più che la presunta difficoltà di lettura - questo andare in controtendenza rispetto alle mode dell’ora che rende poco popolari le encicliche. Eppure non ci si può accontentare di una fede qualunque. Fin dagli inizi del suo pontificato il Papa ricorda come una fede che non diventa cultura sia una fede non fedelmente pensata, non interamente vissuta, non pienamente accolta; una fede che non trasforma né la vita né la società. Per diventare cultura, la fede ha bisogno della mediazione razionale. Tutte le encicliche del Papa si concludono con un’icona mariana. Si avrebbe torto a sottovalutare questi brani considerandoli come puramente devozionali. Così l’ultimo paragrafo della Fides et ratio (108) - sulla base dell’antico detto monastico che invitava a philosophari in Maria - propone un ardito paragone fra la vocazione della Madonna e la filosofia. Come il Verbo per farsi carne ha voluto avere bisogno della mediazione umana di Maria, così la fede per farsi cultura ha bisogno di una mediazione umana, che è quella della ragione e della filosofia.

Massimo Introvigne

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