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“Il dramma dell’Europa senza Cristo” di Massimo Introvigne

Pubblichiamo una recensione del libro “Il dramma dell’Europa senza Cristo. Il relativismo europeo nello scontro di civiltà” a firma di Domenico Airoma. Fonte: Cristianità, settembre-dicembre 2006.

Copertina de 'Il dramma dell'Europa senza Cristo'Il dramma dell’Europa senza Cristo. Il relativismo europeo nello scontro di civiltà” costituisce per Massimo Introvigne una sorta di opera prima. L’autore, sociologo e storico delle religioni, fondatore e direttore del CESNUR, il Centro Studi sulle Nuove Religioni, ha firmato numerosissime pubblicazioni, fra libri e articoli, in Italia e all’estero, in materia di movimenti religiosi, di fondamentalismo e di terrorismo; tuttavia, come egli stesso confessa nella Nota introduttiva (pp. 5-6), «questo volume è diverso» (p.5).

Se, infatti, le precedenti pubblicazioni sono, in quanto testi scientifici sulle religioni, «[...] value-free “prive di giudizi di valore”, [...] stavolta, invece - esordisce Introvigne - ho ritenuto opportuno [...] “scendere in campo”, rivolgermi da cattolico ai cattolici [...]. Le ragioni di questa pubblicazione stanno precisamente nel carattere drammatico della crisi dell’Europa, che sconsiglia anche agli intellettuali di rimanere chiusi nelle loro “torri d’avorio”» (ibidem).

Per la verità Introvigne già ha mostrato di raccogliere l’invito, lanciato da Papa Benedetto XVI ai laici e agli uomini di cultura, di difendere l’identità cattolica e occidentale dell’Europa dalla minaccia di un relativismo sempre più aggressivo e multiforme. I numerosi articoli, apparsi su Cristianità, il Timone, Il Foglio, il Giornale, L’Indipendente e il Domenicale, taluni dei quali raccolti e rivisitati in questo volume, hanno da tempo segnato l’ingresso d’Introvigne nel territorio dell’apologetica, senza che ciò abbia rappresentato per lui l’abbandono dell’abito di sociologo, ma, al contrario, dando vita a una sintesi tanto felice quanto feconda.

Prova ne sia l’accuratezza di analisi della crisi dell’Europa, di cui l’autore considera essenziali - dedicandovi il primo capitolo, Le lampade sotto il moggio (pp. 7-44) - tre aspetti, sui quali, peraltro, si registra la convergenza di diverse prospettive critiche: la debolezza dell’Europa nelle relazioni internazionali - fatta di ricerca sistematica del compromesso e di un pacifismo «senza se e senza ma» -, la separazione della politica dalla morale - risoltasi nell’abbandono dei princìpi del senso comune, da tutti e da sempre accettati e riconosciuti come fondamento di ogni consorzio civile - e il suicidio demografico, sintomo della «mancanza di speranza» (p. 17) nel futuro.

È un’Europa che ha smarrito, oltre alla speranza, il coraggio e la fortezza, con i loro tratti vivaci e netti, scivolando nel grigiore della paura e della noia. «Ma la paura e la noia generano normalmente vizi morali, non solo errori politici» (p. 10). E la «questione morale» (ibidem) è, verosimilmente, il fulcro della crisi e la vera priorità; questione morale intesa, però, non come intreccio fra politica e affari. «Non è qui che l’Europa è quasi unica - avverte l’autore —. È nell’avere legalizzato per legge il matrimonio degli omosessuali» [...]; la possibilità per le coppie omosessuali di adottare figli» (ibidem); l’eutanasia, non solo per gli adulti, ma anche per i bambini; nell’aver trasformato in diritto ogni desiderio: una vera e propria «[...] dittatura “queer”, che non è meno pericolosa della “dittatura del proletariato” marxista» (p. 12).

Come, infatti, la rivoluzione socialcomunista ha privato l’uomo dei naturali abiti sociali, a cominciare dalla famiglia, così la dittatura del relativismo, pur nella versione «buonista» della società multietnica, multireligiosa e multiculturale, «[...] lascia solo il diritto di pensare la morale e la religione privatamente, in “foro interno”» (p. 13), bollando come intollerante ogni pubblico richiamo a un criterio superiore di giudizio e decretando che «[...] chiunque creda nell’esistenza della verità e di valori non negoziabili è un pericolo per la pace» (p. 9).

Più che uno «scontro di civiltà», dunque, assistiamo a una «resa incondizionata» della civiltà occidentale rispetto alle altre civiltà in espansione, fuori e dentro i confini della cosiddetta «Magna Europa», che comprende tutti quei paesi dove gli europei hanno costituito civiltà radicate nel cristianesimo.

Particolarmente efficace e divertente è la metafora cinematografica evocata al riguardo dall’autore: nel cartone animato del 2005 della Disney Chicken Little - Amici per le penne, il sindaco di Querce Ghiandose, «il borioso e incompetente Rino Tacchino» (p. 16) - significativamente doppiato nella versione italiana dal primo cittadino di Roma, Valter Veltroni - «[...] consegna le chiavi della città agli alieni sognando di poter convivere con loro senza problemi in un’idilliaca armonia [...] ricevendone però in cambio un colpo di raggio che lo imprigiona nell’astronave extraterrestre» (p. 17).

Questa è una delle tante gustose digressioni - così le definisce l’autore stesso —, tratte da film, da fumetti, da famosi serial televisivi, quali Streghe, Buffy e Tru Calling, nonché da esperienze personali maturate nei luoghi più diversi del mondo, da Sidney a Damasco, dalla Mongolia a Kuala Lumpur, da Cracovia a Toronto, che forniscono al lettore l’opportunità di riflettere - sfruttando un angolo visuale indubbiamente privilegiato, per informazioni e per capacità d’indagine - sulla comune radice dei molteplici aspetti della crisi dell’uomo occidentale e cristiano: lo «stravolgimento della piena verità di Dio» (p. 44). «Pur avendo origini differenti - osserva l’autore, citando il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2006 di Papa Benedetto XVI - e pur essendo manifestazioni che si inscrivono in contesti culturali diversi, il nichilismo e il fondamentalismo si trovano accomunati da un pericoloso disprezzo per l’uomo e per la sua vita e, in ultima analisi, per Dio stesso. [...] il nichilismo ne nega l’esistenza e la provvidente presenza nella storia; il fondamentalismo ne sfigura il volto amorevole e misericordioso, sostituendo a Lui idoli fatti a propria immagine» (ibidem).

A Dio quello che è di Dio, dunque: questo è il titolo del secondo capitolo (pp. 45-97), dedicato, appunto, alla disamina del processo, storico e culturale, che è all’origine del «dramma di un’Europa senza Cristo»; partendo dalla nascita dei nazionalismi europei - «apologie della nazione che si costruiscono separandola dalla religione» (p. 47), con il suo coerente corollario rappresentato dalla prima guerra mondiale (1914-1918), per finire al Trattato Costituzionale, dove, ancora una volta, gli Stati europei, nel porre le fondamenta di un nuovo organismo sovranazionale, rifiutano di gettarle nel solido terreno che in passato aveva dato unità, ovvero il cristianesimo, preferendo le acque agitate del laicismo, dove già il «il secolo del male» - secondo la definizione del Novecento di Alain Besançon (cfr. Novecento, il secolo del male. Nazismo, comunismo, Shoah, trad. it., con Prefazione di Vittorio Mathieu, Ideazione, Roma 2000) - aveva fatto naufragio.

Non è estraneo a tale ostinata cecità anche un atteggiamento di autocensura, proprio di un ambiente, quello occidentale, prigioniero di ricatti che ne paralizzano ogni forma di salutare reazione. Anzitutto, il ricatto secondo cui chi non è laicista è fondamentalista, ricatto cui non sono sfuggiti, «[...] cattolici e uomini di Chiesa, che - osserva Introvigne - da anni hanno ritenuto doveroso abbracciare una nozione di modernità di cui laicismo, relativismo e culturalismo sono componenti costitutive» (p. 82). O, ancora, il ricatto «[...] secondo cui, per non essere fondamentalisti, occorre fare concessioni al laicismo» (p. 88), tentazione in cui più volte è caduto «[...] un mondo che si auto-definisce di destra» (ibidem).

L’esito è un dialogo apparente, fra un’Europa, che rimane silente,  e gli altri, in particolare, l’Islam, la Cina e il mondo ebraico. Tuttavia, è il silenzio di un mondo, quello europeo, che esiste, che vive, seppur debilitato da un morbo secolare che ne ha sfigurato l’identità.

Il terzo e ultimo capitolo, La Rovina e la Risurrezione di molti (pp. 99-176), si apre, infatti, con un paragrafo dal titolo interrogativo, «Non c’è più religione?» (p. 99), rispetto al quale l’autore si affretta a osservare che, se «[...] questa espressione ha qualcosa di vero e marca una differenza fra l’Europa e gli Stati Uniti. [...] Tuttavia, le cose sono un po’ più complicate» (ibidem).

«Ora, è ovvio - avverte Introvigne - che l’Occidente in cui viviamo non è più la civiltà cristiana. Tuttavia - per la verità, soprattutto negli Stati Uniti [...] - permangono elementi di continuità evidenti (che si manifestano persino in sede elettorale, come mostra il peso della “questione morale” nella vittoria di Bush), che permettono di affermare che l’Occidente esiste ancora» (p. 118).

Si tratta, dunque, per l’Europa e per l’Occidente, di ricuperare il centro, che non può che essere Cristo, e di ri-orientare verso quel centro le proprie scelte, in modo da «ridurre la contraddizione fra comportamenti e partecipazione religiosa, fare diventare cioè l’identità identificazione» (p. 117).

E infatti, «per potere dialogare con le altre civiltà - osserva l’autore —, occorre anzitutto ritrovare sia una consapevolezza teorica della propria identità, sia quella consapevolezza pratica che abbiamo definito identificazione. Ma se la situazione è di crisi, e di quell’antico plesso di identità e di identificazione che era la cristianità europea sono rimasti solo residui, come muoversi in direzione della costruzione di una nuova sintesi tra identità e identificazione che, se non sarà identica all’antica cristianità, dovrà essere tuttavia ispirata agli stessi principi, che non mutano? È questo il problema impostato da Giovanni Paolo II con il costante richiamo alla nuova evangelizzazione» (p. 160).

Una sfida che, giocandosi innanzitutto sul terreno della cultura lato sensu intesa, chiama in causa in modo particolare tutte quelle associazioni e quei movimenti - fra i quali, appunto un’associazione come Alleanza Cattolica, a cui Introvigne dedica uno specifico approfondimento in un paragrafo dal titolo Capitale sociale, capitale religioso e «nuova evangelizzazione» (pp. 160-168) - che si propongono un apostolato culturale, ovvero la diffusione apologetica, dunque anche polemica, cioè non politically correct, dei preambula fidei, cioè dei fondamenti razionali della fede.

Di particolare interesse, a tale proposito, risulta l’applicazione fatta dall’autore delle categorie elaborate dal sociologo statunitense Rodney Stark in materia di conversione e riaffiliazione; in particolare, «la società postmoderna offre un numero mai così alto nella storia di persone del tutto prive di capitale religioso reale, cioè prive di contatto regolare con una qualunque comunità religiosa e immerse nella cultura del “credere senza appartenere”. Intere biblioteche ci spiegano anche che è decresciuto il capitale sociale: le solidarietà e la frequenza con cui si è legati ai familiari e agli amici non sono sparite ma non sono più quelle di un tempo. Il numero di persone prive di capitale sociale e religioso rende più facili le riaffiliazioni, e anche le conversioni» (p. 163).

In tale prospettiva, e in un contesto fatto di giovani spesso privi oltre che di capitale religioso anche di un nutrito capitale culturale, il successo dei processi di conversione e di riaffiliazione «[...] dipende in misura non secondaria dal fattore costituito dal capitale sociale e dalla capacità [...] di costruire una nuova e più ricca offerta di questo capitale» (p. 167), in ultima analisi, dalla capacità di costruire «strutture di plausibilità» (cfr. Peter Ludwig Berger e Thomas Luckmann, La realtà come costruzione sociale, trad. it., con Presentazione di Loredana Sciolla, il Mulino, Bologna 1997, pp. 211-222).

Tutto ciò richiede un «lavoro faticoso» (p. 168) e impone, a ciascun militante, di rimettere gerarchia nelle proprie occupazioni, abbandonando «le etiche centrate sul lavoro» (p.172) e riscoprendo il rapporto con sé stesso e con gli altri, anche attraverso il «fare baldoria» (p. 171), cioè il «[...] dedicarsi a occupazioni rituali, piacevoli e ostentatamente non produttive» (ibidem), tornando a fare esperienza dell’eleganza  - «[...] anche delle piccole cose», spesso «[...] modesto punto di partenza per un dialogo» (p. 168) - e della bellezza, attraverso la quale «intuiamo l’esistenza di una fonte originaria del Bello, quel Pulchrum assoluto che coincide con Dio stesso»  (p. 173).

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