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Per un capitalismo (un po’ più) etico

Editoriale di Claudio Pasini, Presidente di MANAGERITALIA (Federazione nazionale dirigenti, quadri e professional del commercio, trasporti, turismo, servizi, terziario avanzato), pubblicato sul numero di luglio/agosto del mensile “Dirigente“.

Caritas in VeritateBenedetto XVI, papa teologo, il 29 giugno scorso alla vigilia del G8 de l’Aquila ha emanato la terza enciclica del suo pontificato, Caritas in veritate, dedicata ai problemi sociali e del lavoro. In quest’enciclica, che si inserisce nel solco tracciato dalla dottrina sociale della Chiesa dapprima con la Rerum novarum di Leone XIII (1891), quindi con la Populorum progressio di Paolo VI (1967) e la Centesimus annus di Giovanni Paolo II (1991), il papa manifesta grande preoccupazione per la grave crisi finanziaria ed economica mondiale che sta duramente interessando milioni di persone e causando «perdite di posti di lavoro, disoccupazione, precarietà».

Il documento papale prende il via dalla premessa cristiana che «la carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone (…) è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera», ma è anche un messaggio indirizzato oggettivamente a «tutti gli uomini di buona volontà» e rappresenta un obbligato pensiero strutturato di riferimento o di confronto per tutti coloro che hanno responsabilità di governo, nel fare economia, impresa o sindacato.

Questo capitalismo non viene rifiutato dal papa, ma per come si è evoluto negli ultimi decenni, certo non piace a Benedetto XVI, che chiede un impegno a riprogettarlo: «la crisi finanziaria è una grande opportunità per rivedere le regole del capitalismo, migliorandone finalità e strutture. Tutto questo perché senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare perché non può contare solo su se stesso».

È forte dunque il richiamo al ruolo dello Stato e della politica nel dare regole ai mercati che, se lasciati agli egoismi individuali o corporativi di gruppi sociali o intere nazioni, possono certo accrescere i profitti ma al contempo «far crescere povertà e disuguaglianza», mentre la grande sfida del secolo secondo il papa è quella di utilizzare i processi di globalizzazione dell’economia per avviare un grande processo di ridistribuzione della ricchezza a livello planetario.

È evidente a tutti la portata straordinariamente rivoluzionaria del messaggio papale, se solo si pensa che nel mondo il 2% della popolazione detiene oltre la metà dell’intera ricchezza mondiale (fonte World institute for Development economic research Onu) e che negli stessi paesi a capitalismo evoluto la ricchezza si è ulteriormente accentrata negli ultimi decenni: negli Usa il 25% delle famiglie più ricche detiene il 90% della ricchezza complessiva, in Italia è il 71%.

Viene naturale dunque il richiamo papale alla dignità del lavoro, al diritto a un “lavoro decente” (sic!) per tutti e al rispetto dei diritti dei lavoratori, specie in questi anni di oggettivo indebolimento dei sindacati, perché non c’è autentico sviluppo se manca il lavoro, un lavoro dignitoso e non precario, sufficientemente retribuito per poter costruire una famiglia, mantenerla, mettere al mondo dei figli, mandarli a scuola e farli crescere. Insomma, un’economia orientata solo al profitto, che delocalizza le produzioni solo in funzione di costi e profitto, non è rispettosa dei diritti dei lavoratori e genera sfruttamento, cultura della sopraffazione, indebolimento, se non addirittura eliminazione delle garanzie sociali e gravi squilibri.

Il messaggio papale è forte e chiaro: occorre operare per «assicurare il lavoro a tutti gli uomini, specialmente a chi vive nel bisogno, perché cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità, nascono nuove povertà».

Il richiamo all’etica nei comportamenti individuali e collettivi e nel fare economia è particolarmente vigoroso, dal momento che «lo sviluppo è impossibile senza giustizia sociale e uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano pienamente nelle loro coscienze l’appello al bene comune, rifuggendo corruzione, illegalità e sete di potere.
Ma non si può affrontare la questione sociale senza riferirsi alla questione etica. Come pure l’economia che ha bisogno anch’essa dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona».

In un periodo di crisi economica e finanziaria globale l’enciclica papale rappresenta un autorevolissimo richiamo morale contro la religione del profitto, il capitalismo selvaggio, i mercati privi di regole, l’arroganza del potere finanziario, le abnormi disuguaglianze sociali tra ricchi e poveri, tra paesi ricchi e paesi poveri e in definitiva il crescente e diffuso disinteresse per la dignità umana.

Non può certo essere letto come un messaggio di rifiuto dell’economia capitalistica, ma contro le aberrazioni sociali che sta producendo certo capitalismo privo di regole e privo di etica, a favore di un’economia non fine a se stessa o al profitto in sé, ma che ponga nuovamente al centro della propria azione l’uomo, la sua dignità, il soddisfacimento dei propri bisogni.

A noi manager, a noi dirigenti d’azienda, quest’enciclica propone numerose riflessioni, molte domande e altrettante sfide per le molteplici responsabilità che abbiamo, specie in questo tempo di crisi.

Ce le propone nella duplice veste che caratterizza il nostro ruolo: sia di responsabili massimi della conduzio ne e gestione di aziende o di parti delle stesse, in partnership con la proprietà dell’impresa, o comunque con i vertici dell’organizzazione. Sia di lavoratori dipendenti qualificati, soggetti non solo di doveri ma anche di diritti verso l’azienda come tutti gli altri collaboratori. Condurre aziende significa in primo luogo gestire uomini, persone, con la loro professionalità, i loro limiti, le loro potenzialità.

Abbiamo il dovere di generare valore traendo il meglio dalla risorsa uomo, contribuendo in tal modo al benessere dei singoli e della società, rispettando però sempre la dignità umana, anche quando l’azienda o i suoi stakeholder legittimamente ci chiedono cose dure e difficili. Ma abbiamo anche il dovere etico, e rivendichiamo pure il diritto morale e civile di dire no all’azienda, senza per questo essere emarginati o addirittura cacciati, quando questa ci chiede, nell’interesse esclusivo del profitto, di mettere in pratica comportamenti immorali o finanche illegittimi verso la persona, il territorio, la società.

Siamo portatori di diritti e in quanto tali vogliamo e chiediamo di essere trattati sia nell’azienda a capitalismo familiare, ancora troppo spesso pervasa da mere logiche paternalistiche e padronali, sia nelle grandi società a proprietà non manifesta, nelle quali un vertice ristretto sfuggendo a regole e controlli reali gestisce con pugno di ferro le risorse umane, sia nelle multinazionali, nelle quali il nostro top management talvolta subisce passivamente una sorta di stupido colonialismo culturale.

Mi permetto di consigliare una lettura estiva di quest’enciclica (link al sito del Vaticano). Ci farà sicuramente bene. Ma consigliatene la lettura anche ai vostri superiori e all’imprenditore della vostra azienda. Farà certo bene anche a loro.

Claudio Pasini
claudio.pasini@manageritalia.it

Ps: la crisi economica c’è. La si constata dal significativo calo dei consumi (-1,5% nel 2009 secondo Confcommercio), dal crollo dell’export superiore al 20% secondo l’Istat, dal forte calo del Pil dato a -5% nel Dpef e a -5,1% secondo il Fmi, dall’aumento della disoccupazione che tende a superare il 9% nel 2009. E le aspettative per l’autunno non sono certo incoraggianti.
Anzi. In questa situazione, bene l’appello all’ottimismo lanciato dal governo: la paura della crisi riduce i consumi, almeno di quanti i soldi li hanno.
Bene il provvedimento del governo di detassare gli utili d’impresa reinvestiti. Peccato che in questa situazione gli utili d’impresa si siano fortemente ridotti e chela detassazione riguardi solo l’acquisto di beni strumentali. Ma se il governo detassa gli utili d’impresa, perché non detassa anche il reddito da lavoro, magari anche solo la retribuzione variabile, immettendo sul mercato uno stimolo forte, l’unico in grado di far ripartire davvero i consumi interni?

Fonte: www.manageritalia.it

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